Sulla pagina senese di LEFT esce una lunga riflessione di Vincenzo Coli che attraversa la storia di Siena dagli anni 60 e che si pone l’obiettivo di rispondere a molte domande cruciali. La prima, essenziale, è quella, ricorrente, “quando ha avuto inizio il decadimento sociale, politico e culturale di questa città?”
Tutto è cominciato, dice Coli,
“quando Siena ha smesso di essere un corpo sociale vivo, reattivo, che discuteva del suo futuro, che elaborava progetti, e li realizzava”.
Questo era, secondo Vincenzo,
“lo spirito autenticamente civico (aggettivo adottato in maniera impropria da molte liste scese in campo negli ultimi anni) che animava i partiti popolari e di massa, quelli della vituperata prima repubblica: PCI, DC, PSI. Fortemente ideologizzati, sì, ma capaci di selezionare classi dirigenti di un certo livello e di rappresentare le istanze dei cittadini, che in quei partiti-chiesa si riconoscevano pienamente e vi trovavano accoglienza e difesa. Forse con qualche ingenuità, ma con molta fierezza. Erano luoghi di aggregazione e di incontro dove si faceva politica nel senso nobile del termine, e veniva prodotta una dialettica inequivocabile, rappresentata plasticamente sui banchi del consiglio comunale: una maggioranza di sinistra che amministrava bene (i giornali cominciavano a stilare allora le classifiche nazionali sulla qualità della vita, e Siena era spesso sul podio) e una minoranza di centro che faceva altrettanto bene il proprio lavoro di opposizione, incalzando sindaco e giunta e costringendoli ad alzare ogni volta l’asticella. Il tutto nel rispetto reciproco. Siena era contendibile, certo, e proprio dalla competizione leale sgorgavano idee interessanti” .
Così Coli elenca a mo’ di esempio le grandi realizzazioni storiche: la chiusura del centro storico al traffico del 1965, il progetto che avrebbe dovuto fare dell’ex ospedale Santa Maria della Scala il Beaubourg italiano, un grande e polivalente complesso culturale, la realizzazione di abitazioni a giusto prezzo nelle periferie e nelle aree suburbane, su tutte San Miniato e Taverne d’Arbia, l’insediamento artigianale di viale Toselli, che spostò tante attività di servizio e produzione dal cuore affollato del capoluogo. Solo per citare alcuni degli esempi più importanti e portati a buon fine accanto a qualche idea mancata come il ridisegno della Fortezza da parte di Alvar Aalto (magari bisognerebbe aggiungere come Siena riuscì a difendersi dall’invadenza dell’industrializzazione altrove così pesante).
Coli rammenta bene il clima di quegli anni :
“ricordo su questi temi tanti incontri degli amministratori e dei progettisti con i cittadini, mostre pubbliche di mappe ed elaborati, presentazione di documenti e mozioni, dibattiti animatissimi, dove si respiravano spirito di partecipazione e una passione straordinaria. Vennero coinvolte associazioni, contrade, sezioni di partito, parrocchie. Esempi lampanti di democrazia diretta. L’idea di base era innovare la città con intelligenza, garantendone al tempo stesso la struttura delicata. Chi governava Siena presentava progetti agli abitanti interessati, si confrontava con essi e al termine di questo circolo virtuoso assumeva impegni sulla base di decisioni condivise. La presenza della Banca (con la B maiuscola per tutti i senesi dell’epoca) garantiva le risorse necessarie.
E’ qui, forse, non ce ne voglia Vincenzo, il primo “errore” di impostazione: se i partiti erano capaci di fornire amministratori capaci e se questi erano in grado di confrontarsi, di pensare e di progettare, se erano costantemente impegnati negli incontri con i cittadini, se erano spinti a concretizzare meccanismi di democrazia partecipata (e non diretta), come è vero, ciò non dipendeva — come si è visto dopo — da qualità intrinseche e innate dei partiti (che avevano comunque le loro pecche, eccome se ne avevano) ma dal fatto che i cittadini li costringevano letteralmente a quelle azioni creando circuiti virtuosi di democrazia.
I partiti sono come i cittadini li fanno essere, perché i partiti sono lo specchio dei cittadini. Se i cittadini delegano, i partiti ne approfittano. Come tutte le organizzazioni funzionano bene se sono controllati, se hanno il fiato sul collo. Se sono abbandonati tirano a sopravvivere e intanto compiono nefandezze, spesso e volentieri.
Comunque sia, quando comincia la decadenza senese?
Vincenzo ritiene che coincida con “l’inizio degli anni novanta” con “la notte della Prima Repubblica”. In pratica, sotto i colpi dei giudici di Mani Pulite, ci dice, entrarono in crisi i grandi partiti popolari e di massa ed entrarono in crisi le ideologie che letteralmente scomparvero, o si trasformarono.
“Un effetto domino — afferma — che travolse l’intero Paese, spazzando via meritoriamente aree di illegalità diffusa ma anche soffocando, in luoghi in cui il confronto tra i partiti era sempre stato impeccabile, un modo antico e generoso di pensare e fare la politica. Accadde anche a Siena, naturalmente. Dove alle segreterie di partiti ormai paralizzati e afasici si sostituirono lestamente gruppi di potere ristretti, trasversali e legati ad associazioni segrete, veri e propri comitati d’affari che allestirono una nuova cabina di regia, allacciarono rapporti talvolta oscuri con il mondo imprenditoriale e si garantirono la cornucopia inesauribile della Banca collocando rappresentanti degli enti locali nei consigli di amministrazione, in virtù della legge Amato. La politica ora governava direttamente gli istituti di credito.
Ed è qui che si appalesa il secondo “errore”: il vero inizio della decadenza risale ai primi anni 80 che sono quelli del distacco tra amministrati e amministratori, del tradimento del patto di fiducia tra elettori ed eletti, gli amministratori si chiudono nelle loro stanze perché i cittadini smettono di premere e di pretendere; sazi di panem et circenses accettano di prendersi le briciole del banchetto; vippismo, clientele, arrivismo dilagano. I partiti si godono il consenso raggiunto: ciò che serve sono i voti. Il potere non si condivide dal basso, ma ci si consocia per esercitarlo senza condizionamenti. Mani Pulite non fu la causa della decadenza, come sostiene Vincenzo, ma la sua conseguenza. La corruzione, intesa come mala administration, era dilagata dieci anni prima (fu allora, per esempio, che fu bloccato il progetto del Santa Maria della Scala).
” Finita la stagione dei grandi progetti e di qualche necessaria utopia — continua Coli — la stagione dei grandi dibattiti, delle discussioni appassionate che avevano coinvolto un numero enorme di cittadini, il pallino ora restava in mano ai soliti noti che se la suonavano e se la cantavano, e con una certa frequenza si facevano pure guerra aperta, tanto è vero che Siena a un certo punto fu terreno di scontro, a suon di scoop giornalistici, tra comitati d’affari e logge contrapposte, e la faccenda finì in tribunale”
E questo, più che terzo “errore”, è serio travisamento della storia. Definire scontro tra “comitati d’affari e logge contrapposte” la vicenda delle false liste massoniche pubblicate dal Cittadino di Fabio Rugani, alla luce delle verità processuali accertate potrebbe diventare addirittura materia da denuncia-querela. Vincenzo Coli, su quella vicenda, è rimasto alla mera apparenza, a quello che si tentò di far passare. E’ quella una storia tutta interna alla lotta di potere dentro il Partito Democratico della Sinistra PDS, già PCI, di cui ha tessuto poc’anzi le lodi e avviene in un periodo, 1993, in cui, a suo avviso, non si era ancora aperta la fase di decadenza.
Dice ancora l’autore:
“la solitudine, o la frequentazione sistematica di pochi yesman, a fronte di un potere immenso e incontrastato e di una disponibilità di risorse economiche che sembravano infinite, fece scoppiare nella testa dei principini sul pisello il delirio di onnipotenza. Da Roma e non solo da Roma giunsero richieste pressanti di partiti — tutti — in bolletta, del Vaticano, del Grande Oriente, di grandi soci privati della Banca. C’erano grassi dividendi da staccare, e dentro la Smart fu deciso il Grande Affare. Come è andata a finire lo sappiamo. E siamo ancora qui a leccarci le ferite”.
E qui, magari, quarto “errore”, questo di omissione, non bisognerebbe dimenticare che ci sono processi aperti a Milano, che ci sono cittadini che ne sostengono le spese, che lo stesso processo di assoluzione di Mussari e Vigni per intralcio alla vigilanza ha dimostrato che gli organi di vigilanza sapevano e che, insomma, la città, e anche Left, dovrebbe pur sostenere queste battaglie o, almeno, non trascurarle come inesistenti.
Infine Coli passa felicemente all’attualità:
“dall’anno scorso è cambiato il colore del governo cittadino, e il vulnus alla storia democratica e antifascista di Siena è stato profondo. Ma dopo quello che era successo sembrava davvero difficile poter scongiurare una traumatica discontinuità. Il problema è che, se sono cambiate le parole della canzone, la musica è rimasta la stessa …c’è ancora un piccolo gruppo al comando, fintamente nuovo — qualcuno mestava fin dagli anni ottanta — dalle dubbie competenze e che professa un cambiamento politico evidente a tutti ma dagli esiti quanto meno mediocri… le decisioni vengono prese ancora tra quattro mura, approvate in consiglio comunale e comunicate, se va bene, via social al popolo smanettone. Nessun coinvolgimento dei cittadini, un progetto complessivo di rilancio economico e culturale (difficile, mancando l’assessore preposto) che non s’è capito quale sia. Un orizzonte che non si stacca da terra, obiettivi modesti, iniziative estemporanee, effimere, che non lasceranno traccia”.
E si arriva così alle altre domande: riusciremo mai a invertire la tendenza? E come ci riusciremo?
Secondo Coli si dovrebbe fare così:
” …la speranza di vedere (Siena) tornare alla vivacità e agli entusiasmi di un tempo passa sicuramente da un lavoro politico a lungo termine che sia aperto e inclusivo, che elabori progetti grandi e generosi, e si prefigga il recupero di valori forti come la solidarietà, l’antifascismo, l’antirazzismo, la laicità. E la voglia di mettersi in discussione, confrontarsi con chi sentiamo vicino, ma anche con chi è chiaramente altro, diverso da noi.
E’ questa la vulgata, “normale” e ricorrente a sinistra, che mostra ormai le corde e che forse, si sottolinea “forse”, adombra il quinto e più grave “errore”, denso di qualche contraddizione. Dice Coli: il lavoro politico deve essere aperto e inclusivo. Giusto. E deve svolgersi con la voglia di mettersi in discussione. Perfetto. A chi dobbiamo aprirci e con chi ci dobbiamo mettere in discussione? anche con chi è chiaramente altro, diverso da noi. Sulla base di quali valori? Solidarietà, laicità, antifascismo, antirazzismo.
Ora è chiaro che, se analizziamo questi quattro valori, vediamo subito che due sono espressi in “positivo”: solidarietà e laicità, e due in “negativo”: antifascismo e antirazzismo. A che potrebbe servire questa qualificazione in negativo? La risposta sembrerebbe banale: se vivessimo in uno Stato fascista o in procinto di esserlo dovremmo praticare l’antifascismo; se vivessimo in un regime razzista dovremmo rivendicare l’antirazzismo. Ma Siena non è fascista né razzista e viviamo in uno Stato democratico retto da una bella Costituzione con istituzioni democratiche attive e funzionanti, con una stampa, spesso asservita di fatto ai poteri economici, ma formalmente libera, con una magistratura in crisi ma ancora indipendente, con una distinzione dei poteri salda e in un’ Europa che garantisce diritti di cittadinanza e libertà formali. Dunque non abbiamo bisogno di rivendicare continuamente questi due valori oppositivi, ma semmai di lavorare per l’affermazione dei valori positivi corrispondenti e previsti nei principi della nostra Costituzione: eguaglianza di fronte alla legge, pari diritti e dignità, rimozione degli ostacoli che impediscono la piena affermazione della personalità, ecc, naturalmente per tutti.
Del resto, se vogliamo “metterci in discussione” anche con chi è diverso da noi, perché non cominciare col discutere con tutti, dicesi tutti, i valori della Costituzione repubblicana? perché non mettersi insieme per attuarli?
Insomma, ci si chiede, come farà Vincenzo Coli e come faremo noi assieme a lui, a tornare al “rispetto reciproco” e alla “vivacità ed entusiasmi di un tempo”, se non accettando i principi della Comunità civica monitorante dove ci si riconosce nei principi costituzionali e si pratica in concreto il confronto democratico e il libero dibattito?
Apprezzo molto il dibattito aperto da Vincenzo Coli che dà modo di confrontarsi su un periodo storico che ha influenzato in maniera determinante la città. Peraltro è da notare la memoria storica di lunga data sia nella disamina che nel commento di Idee in Comune, roba non da poco.
Vorrei aggiungere un piccolo elemento che, a mio avviso, non può essere trascurato.
Tra le voci fuori dal coro, poche ma pur sempre presenti, ce ne è stata una particolarmente efficace, quantomeno nel primissimo periodo dopo la sua nascita. Mi riferisco a quel progetto civico noto come Siena Cambia che, con inaspettate energie, è riuscita nel 2013 a far eleggere un sindaco che prometteva battaglia, ribalte, rinnovamento dei metodi. Ho particolarmente a cuore per periodo perché sono stato uno tra quelli che aveva spinto, partecipato e creduto che fosse possibile farcela, e non solo a vincere le elezioni, bensì a produrre un avvio di cambiamento metodologico che maturasse e durasse nel tempo. Novità, idee, partecipazione realmente democratica, dibattito, buone pratiche e quant’altro la città anelasse come una boccata di ossigeno.
Purtroppo così non è stato, sia per le infiltrazioni di personaggi per tutte le stagioni nell’associazione, sia per l’inesperienza, sia per la mancanza di audacia di chi poteva realmente incidere nelle sedi democratiche, sia per i posizionamenti politici personalistici e poco coraggiosi del primo cittadino.
Insomma, c’è stata un’occasione persa, un breve lampo di speranza, una finestra di opportunità che non è stata sfruttata, anzi è stata volontariamente soffocata, emarginata, osteggiata, dileggiata così come l’associazione stessa, e lo è stata in maniera paradossalmente più incisiva dalle sue proprie rappresentanze democratiche.
Ed è proprio da questa umile esperienza che mi viene forte la necessità di (ri-)costruire un rapporto di fiducia con gli eletti tramite una continua, proficua e democratica partecipazione e monitoraggio attivo.