L’immagine l’hanno rievocata Norma e Brunero davanti ai polli denudati della macelleria delle Grondaie: “Ti ricordi Pio bove di Panariello? sì, dai, l’avvoltoio immobile e speranzoso sulla spalliera del letto della nonna anziana e malandata? Ecco, mi dispiace ma non so che farci, a me mi fa venire in mente UNICREDIT”.
Il ricordo è truculento, ma appropriato; e sembra anche pericoloso per la stessa immagine pubblica della banca candidata a succhiare la parte buona delle spoglie, sotto la direzione di Orcel e pure del già parlamentare “protettore” del territorio, Padoan Pier Carlo.
Il Comune, dopo avere aspettato per dieci anni le decisioni definitive della Cassazione sui derivati, si è fatto coraggioso e intraprende la causa di risarcimento: una cinquantina di milioni la posta in gioco, 500mila agli avvocati in caso di vittoria. E’ la prosecuzione della via avvocatesca intrapresa dal Comune in luogo dell’azione politica, solo negli ultimi giorni rievocata fiaccamente.
I Senesissimi di Mauro Aurigi, per “salvare il Monte”, ascrivono tutto alla “privatizzazione” e, intanto, stanno discutendo da un po’ se e come chiedere incontri a De Mossi e Sindacati.
Massimo Cacciari, filosofeggia sulla “fogna di Siena” addirittura “da un secolo a questa parte” e Letta, candidato alle suppletive di ottobre, dopo avere accennato sulle colonne di Repubblica e per la prima volta dalle parti del PD ad una attesissima “autocritica”, ieri a Montepulciano, tagliando corto sulla chiara domanda della moderatrice, ha glissato sul punto: difficile dargli torto se si considera che parlava ad una platea di prevalente se non esclusiva presenza di amministratori e di militanti devoti (al Fatto quotidiano è parso anche di intravedere leghisti disposti a votare PD tanto l’atmosfera appariva idilliaca).
Una “fogna lunga un secolo” è l’ennesima forzatura menzognera dell’anziano provocatore e Barzanti, sul Corriere fiorentino, ne ripercorre giustamente la storia:
.….anche prima della sciagurata acquisizione di una parte di Antonveneta erano state assecondate pressioni esterne per compiacere un viziato sistema locale e indirizzi nazionali forieri di sventure. Ma periodizzare addirittura in un secolo le malefatte della «fogna» di Siena fa infuriare quanti conoscono la crescita di una banca che ha prodotto effetti decisivi per il territorio di immediata pertinenza e per l’Italia del miracolo.… Ezra Pound la esaltò come una banca che basava il credito da erogare «sull’abbondanza della natura, sull’erba che può nutrire le pecore»: non usuraia, ma tramite di una ricchezza pubblica da condividere. La sua eccitata visionarietà ignorava il solco che separava chi dominava gli affari e chi faticava nei pascoli della Maremma. Eppure l’aristocrazia terriera che in prevalenza guidava le sorti di Rocca Salimbeni seppe unire sfruttamento e egemonia, facendosi apprezzare per quanto costruiva a beneficio di una grata collettività. Dando uno sguardo all’albo d’oro del dopoguerra, che registrò il razionale ampliamento dello spettro operativo del Monte, troverete che nel 1945 il primo presidente del postfascismo fu il liberale Vittorio Fossombroni, fiorentino. E in Deputazione – oggi diremmo Cda – il Conte rosso Ranuccio Bianchi Bandinelli sta accanto al probo repubblicano Carlo Ciampolini . Il cattolicissimo Francesco Ponticelli è insieme a Bettino Ricasoli. Per metà la squadra era designata dal governo centrale e per metà eletta dal Comune. In anni più vicini ecco lo storico Giorgio Giorgetti (comunista) a confronto con Mario Delle Piane. Si dirà: lottizzazione. È lecito affermare che si trattò di un consociativismo virtuoso, attuato non senza scontri alla luce del sole, attento a seguire le direttrici di un Provveditore in collegamento con Bankitalia. La politica c’entrava – eccome – ma non con irruenza padronale, con faziosità di parte. Classificare il Monte come banca «di sinistra» è un errore inaccettabile. Il presidente era d’obbligo democristiano. Il cuore dell’Istituto rimase a Siena e si espanse per la Toscana e ben oltre, fino all’internazionalizzazione degli Anni Settanta avviata dal laico Paolo Pagliazzi, perché si mediò tra interessi, provenienze e culture. Con ammiccante finezza Marcello De Cecco, dal 1978 partecipe del consesso, registrò i primi scricchiolii di un costume che cominciava a sfaldarsi: «La mattina, in piazza Salimbeni, è tutto un via vai di giovani vestiti nell’uniforme bancaria internazionale, e si sente parlare molto inglese con accenti improbabili: inviati di investiment banks, di rating agencies, di bond dealers, che vengono a presentare le loro proposte ai dignitari bancari locali». Fino a che punto si seppe aprire al vento della necessaria riorganizzazione le auliche stanze? «Se è divenuto un po’ più efficiente – annota De Cecco –, il Monte ha anche perso molta della sua vecchia schiettezza, quando un direttore centrale poteva dire: ‘Io sono figliol di Parlachiaro’», immettendo un detto popolare nel gergo di complicate strategie. Il passaggio dallo spazio domestico ad una geografia nazionale e quindi ai meccanismi societari globali non fu accompagnato da mirate innovazioni. L’illuminato presidente Piero Barucci mise in guardia più volte dai rischi di incrementare partecipazioni fuori scala, fino a rassegnare nel 1990 polemiche dimissioni. La trasformazione in Spa si rivelò irrinunciabile. Silvano Andriani, economista di rango, asceso a Palazzo nel 1993, non ignorava il disagio della sinistra nell’affrontare la turbolenta finanziarizzazione: «La questione – ha lasciato scritto – che si impone è valutare se sia possibile immaginare, in un diverso tipo di sviluppo, un diverso modo di funzionare della finanza».
Pier Luigi Piccini (Ora Basta! i discorsi stanno a zero — Pierluigi Piccini Blog), integra il periodo più prossimo alla disfatta con questa testimonianza:
il Comune di Siena diede incarico ad un gruppo di esperti, coordinati da Pietro Rescigno, di valutare i passi da compiere. La tesi di questi ultimi era che, una volta uscito il Ministero del Tesoro dalla Banca Monte dei Paschi, l’istituto senese sarebbe tornato in capo ai fondatori, quindi al Comune di Siena. Tale tesi fu presentata dallo stesso Rescigno in Consiglio comunale alla presenza di tutti i rappresentanti istituzionali della città e della Regione.
Ma la tesi non fu accolta e si decise — ricorda Piccini — di “gestire la Ciampi-Amato” con un laborioso statuto della Fondazione che allora valeva 11 miliardi di euro e la Banca arrivò in borsa senza essere privatizzata perché le azioni rimasero a disposizione della Fondazione (e della città).
Era una concentrazione immensa di risorse e, dunque, di potere.
Risorse e potere che i partiti di Siena (tutti a partire dai Ds) non sono stati capaci di gestire.… Sarebbe stato il momento di creare una grande piazza finanziaria capace di coinvolgere l’Italia centrale .…e il passaggio è stato segnato contro le indicazioni di Spaventa, dal polo aggregante alle fusioni con le grandi banche. Quindi Bnl, San Paolo, Banca Antonveneta.….…l’arrivo di Viola e Profumo è servito solo ed esclusivamente a “far passare la nottata”, sperando che le vicende venissero lentamente dimenticate…
Se questa è la storia, serve certo parlare di futuro e, perciò, sono ancora le parole di Barzanti.….
.… se Siena è quello che è e dispone delle potenzialità d’un rilancio da ridimensionare crudamente è anche per merito di una fonte non essiccata. Non ne sgorga acqua di «fogna»! Più che dettare timorosi paletti a difesa è l’ora di sostenere con sofferto realismo prospettive che guardino senza boriose illusioni al domani. Per riprendere il cammino è essenziale pensare ad un’economia diversificata e plurale. Non è un sogno.
Ma si può davvero parlare solo di futuro saltando a piè pari la storia? Come può essere possibile che, per attivare il futuro che Letta ci fa intravedere, si voglia prescindere dai conti definitivi con la storia? La quale, se non è certamente una “fogna lunga un secolo”, non è nemmeno esempio di magnifiche sorti e progressive.
Per contribuire al futuro, Letta dovrà faticare e fare quello che il PD locale ha dimostrato di non essere in grado di fare: rompere decisamente cogli errori del passato, fare pulizia interna, precisare un progetto concreto perché le sole speranze e gli auspici non sono più sufficienti a convincere gli elettori senesi e aretini a scegliere il segretario nazionale del partito che resta, ad oggi, seppure in buona compagnia, il responsabile principale della disfatta economica e morale. E, soprattutto, oltre che lavorare in trasparenza, come è stato promesso, si dia spazio a quella “fonte non essiccata” ancora rappresentata dai cittadini che, nonostante tutto, hanno sempre seguito la bussola del bene comune.
Quelli citati sono tutti personaggi apicali. Ma le fortune del Monte, soprattutto nella seconda metà del secolo passato (e anche oltre, anzi molto oltre nella storia) non sono dovute a loro, ma alla capacità e soprattutto la passione e l’attaccamento di chi, invece di riscaldare poltrone ben retribuite, lavorava in trincea. Io sono stato uno di questi. Nessun’altra banca, cosa che agli “apicali” ovviamente sfuggiva e sfugge del tutto, poteva godere di una simile fortunata situazione. Eppure bastava e basta porsi la domanda: ma come è stato possibile che il Monte sia diventato (fino alla privatizzazione, ovviamente), una enorme banca di rilievo anche internazionale in mano a una città e un territorio di così limitate potenzialità sotto ogni aspetto? Dopo di ché ogni dubbio sarebbe scomparso. Per quanto io abbia cercato non sono riuscito a scovare in tutto il pianeta un fenomeno neanche minimamente paragonabile alla diade Monte/Siena. Anche a questa ignoranza (apicale!) è attribuibile il collasso di cui siamo oggi tutti testimoni . Barzanti, Piccini, Barucci, Rescigno, Letta, De Mossi, Delle Piane, Giani, Pagliazzi, Giorgetti ecc. ecc. perfino il boccoluto Andriani (economista di rango!!!!) Ma per favore!
Mauro Aurigi
Una risposta chiara si impone. Intanto citare alcune personalità tra le molte che ebbero un ruolo fondamentale nella guida del Monte non significa affatto ignorare l’essenziale apporto di professionalità e di passione dei lavoratori di ogni livello che ha contribuito a fare di Mps l’Istituto che abbiamo conosciuto, ma si sa bene che, se un’equipaggio non ha una dirigenza onesta e consapevole (e lo si è visto) da solo non sa dove sbattere. Credere, inoltre, che si possa fare storia prescindendo dalla funzione dei “ceti dirigenti” è insensata illusione (e Aurigi potrebbe averlo imparato dalle vicende lampanti del “suo” Movimento 5stelle).
In ogni caso elencare Barzanti tra i “dirigenti” del Monte è pura falsità e solo disgustoso appare il giudizio offensivo su Silvano Andriani, non più tra noi. Per il resto, Aurigi, che parla sempre della banca, potrebbe per una volta alzare il naso dai propri personali ricordi e leggersi “Il Monte nel Novecento” di Asso e Nerozzi.
La Redazione